Ieri a Bruxelles si è concluso il primo round negoziale dell’accordo di libero scambio tra Giappone ed Unione Europea, a solo un mese di distanza dal lancio ufficiale dei negoziati, e ad un anno dal mandato negoziale degli stati membri acquisito nel luglio del 2012.
La seconda tornata si svolgerà a Tokyo il giugno prossimo, ed i negoziatori prevedono un terzo round in autunno mentre evitano accuratamente di sbilanciarsi, nelle dichiarazioni alla stampa, sulla durata complessiva del processo che, in alcuni casi complessi, ha superato anche i tre anni.
I nodi principali del negoziato ruotano attorno all’eliminazione delle barriere non tariffarie al commercio internazionale che rendono impraticabile l’accesso al mercato nipponico, pregiudicando soprattutto il business delle piccole e medie imprese europee. L’Europa interverrà invece sui dazi che incidono negativamente sui segmenti strategici dell’export giapponese: automotive, machinery, prodotti chimici.
Parallelamente l’UE cercherà di ottenere un’apertura del sistema di commesse pubbliche vigente in Giappone, che di fatto risulta scarsamente accessibile ai fornitori esteri e rappresenta una rilevante opportunità di business.
La Commissione Europea basa le proprie valutazioni su un accurato studio di impact assessment che, anche negli scenari più conservativi o asimmetrici, prevede un generale incremento del volume di affari tra i due paesi ed un consequenziale aumento di posti di lavoro ed ampliamento di nicchie di mercato. I pilastri focali dell’impostazione di Bruxells sono tre:
- A livello tariffario, pur avendo in livello medio dei dazi molto ridotto, entrambi i paesi incidono in maniera rilevante su segmenti di mercato particolarmente importanti per la controparte. Il Giappone mantiene tariffe elevate su prodotti agricoli, alimentari e beverage, mentre l’UE concentra i dazi sull’automotive (dal 10% al 22%) ed altri settore chiave dell’export nipponico (elettronica, meccanica);
- Le barriere non tariffarie sono invece un ostacolo per diversi segmenti cardine dell’export europeo: chimica e farmaceutica, automotive, agroalimentare, telecomunicazioni e servizi finanziari. Standard industriali strutturati e poco trasparenti, sistemi di certificazione ostici e normative simili sono di fatto un ostacolo insormontabile per i fornitori esteri in tali segmenti;
- Il public procurement è praticamente inaccessibile. Le commesse pubbliche rappresentano un target rilevante per segmenti dell’eccellenza europea, come il settore aeronautico.
La previsione d’impatto prevede una crescita del PIL tra lo 0,3% e lo 0,7%, un aumento dell’export di oltre il 6% a fronte di un incremento delle importazioni del 2,5% circa. Benefit diffusi dovrebbero essere invece un incremento generale dell’occupazione, delle retribuzioni di risorse semi-skilled, oltre al miglioramento della competitività dei due sistemi industriali.
Non mancano però criticità ed aspetti da approfondire. Il settore più recalcitrante è proprio l’automotive che ha visto una dura presa di posizione dell’ACEA (associazione europea dei produttori), che paventa la perdita di oltre 70.000 posti di lavoro nel settore ed un indebolimento senza precedenti di un sistema industriale che versa in profonda crisi da anni. Marchionne (aldilà della querelle con Volkswagen di cui si rese protagonista proprio durante il via libera ai negoziati) ha ad esempio salutato con estremo scetticismo e preoccupazione la conclusione del primo round negoziale di un accordo i cui effetti disastrosi sono paragonati a quelli dell’FTA con la Corea del Sud che, a parere dell’ACEA, ha privilegiato a senso unico i produttori coreani.
L’ACEA, oltre ad argomentare dettagliatamente la propria presa di posizione, ha commissionato a Deloitte una valutazione d’impatto settoriale per l’automotive che giunge a conclusioni preoccupanti ed in stridente contrasto con la Commissione Europea.
Si evidenzia la forte disparità tra il potenziale del mercato europeo del settore, e la prevista involuzione di quello giapponese, che esula dalle priorità e dai target esteri dei produttori europei. L’infografica è abbastanza eloquente (anche se la reputo eccessivamente ottimistica nelle previsioni per il mercato UE dell’auto).

Deloitte – Japan trade evolution forecast
Il vantaggio medio per i produttori giapponesi è stimato in circa € 1.500 per ogni veicolo venduto in Europa ed il suo effetto combinato con la depressione dello YEN (con le misure dell’Abenomics a regime) può essere dirompente per i competitor europei.
Sono criticità che, proprio a fronte degli sviluppi dell’Abenomics e dei sue effetti amplificati dall’austerity imperturbabile in casa UE (di cui scrivevo poco tempo fa), assumono un valore certamente diverso in questi giorni.
Bisogna evidenziare però anche alcuni benefici trascurati, di cui i negoziatori e gli operatori di mercato devono tener conto, come il delinearsi di interessanti opportunità di affari per il settore agroalimentare, soprattutto food & beverage, e per quello chimico/farmaceutico.
Paesi di tradizionale produzione automobilistica come l’Italia, vantano anche eccellenze e vantaggi competitivi considerevoli proprio in questi settori (ed il grafico sui trend delle importazioni è eloquente), quindi il bilancio conclusivo potrebbe non essere del tutto sfavorevole.
Una strada chiusa ne può svelare altre.

Giappone – importazioni Italia macrosettori
Che strano: si firmano accordi di libero scambio per far viaggiare merci da un continente all’altro nel momento esatto in cui i costi di trasporto e logistica cominciano a far tramontare questo genere di giochi. I nostri strateghi evidentemente hanno una visione ottimistica del futuro.
Dipende anche dal settore coinvolto. Per le aziende dell’automotive ad esempio, con una catena del valore praticamente globale, i costi relativi alla logistica e ai trasporti sono trascurabili. L’accordo con la Corea del Sud ad esempio ha spronato le vendite dei produttori sudcoreani in UE con effetti quasi immediati. Per altri settori invece, come quello alimentare o beverage può essere un ostacolo per le piccole imprese che spesso hanno prodotti d’eccellenza (penso al vino). Quello che si può rimproverare alla regia di questi accordi è, a mio avviso, l’abbandono ormai conclamato delle politiche multilaterali. Il boom del ricorso ad accordi bilaterali infatti alimenta la divisione in blocchi economici e, soprattutto, impedisce che siano affrontate seriamente tematiche ineludibili come i costi ambientali o le disparità nelle condizioni di lavoro.