
Conferenza stampa sul digital single market del 2015 (AFP/Getty Images)
Neanche due settimane fa è stata pubblicata la nuova versione del DESI – Digital Economy and Society Index che riassume gli indicatori più importanti nella performance digitale europea e confronta il percorso dei diversi stati membri. Una cartina tornasole interessante per comprendere come il cammino verso il mercato unico digitale sia fitto di ostacoli.
Tra i dati più interessanti quello della connettività: l’indice che misura lo stato dell’arte nella realizzazione delle infrastrutture a banda larga e la relativa qualità di connessione che è di fatto uno dei driver più importanti nella competitività, soprattutto nell’era dell’industria 4.0 su cui sta puntando molto il Governo italiano nelle recenti strategie di sviluppo. C’è una crescita diffusa della connettività, sia a banda larga fissa che mobile attraverso il 4G LTE, ma il divario tra i paesi che registrano un indice migliore e la periferia di Europa è rilevante. Per l’Italia si tratta di una partita importante, se pensiamo alle battaglie sulla gara Infratel che vale 1,4 miliardi di euro (qui un riassunto recente e aggiornato di Formiche.net) e la sfida che ha visto OpEn Fiber, la società controllata da Enel e da Cassa Depositi e Prestiti, aggiudicarsi tutti e cinque i lotti per la cablatura delle aree a cosiddetto fallimento di mercato.

Solo una piccola parte delle PMI europee vende online. Meno di metà di questa fetta di imprese vende all’estero (compreso il commercio intra-europeo). In Italia il dato è drasticamente inferiore.
Impressionante il dato sul capitale umano e le skill digitali: il 44% dei cittadini europei non ha neanche le competenze digitali di base, nonostante il 79% di essi vada online regolarmente (almeno una volta la settimana) e sia in crescita costante ogni anno. È un dato allarmante che incide non solo sulla competitività della forza lavoro, ma anche sul tessuto sociale e sui destini politici dell’Unione Europea in un momento così delicato. Se pensiamo al ruolo che hanno avuto le fake news nelle elezioni USA, e la ribalta dei movimenti populisti (o del cosiddetto gentismo in Italia) che stanno guadagnando consensi anche grazie all’utilizzo poco consapevole dei nuovi media, questo dato preoccupa in senso ancora più esteso.
Approfondendo invece l’integrazione degli strumenti digitali con le imprese, arrivano le sorprese: seppure tutti gli indicatori sono in crescita, solo il 36% delle imprese utilizza business software specifici per la condivisione di informazioni, il 18% solamente utilizza la fatturazione elettronica ed il 20% è approdato sui social media per interagire con propria base di clienti. Indicatori che crescono di almeno un terzo rispetto alle rilevazioni precedenti (ed è la buona notizia) ma che lasciano ancora un vasto sottobosco di aziende non aggiornate (ed è la cattiva notizia).
Nell’e-commerce siamo ancora indietro: non solo le PMI europee che vendono online sono il 17% (dal 14% del 2014, comunque in crescita) ma solo metà di esse è attiva sul cross-border e-commerce anche all’interno dei confini europei. In un mondo in cui le transazioni commerciali digitali arriveranno a coprire quasi un terzo dei flussi totali, diventa un ritardo importante.
Approfondendo la situazione dell’Italia (qui il country profile) vediamo un ritardo importante in diversi indicatori strategici: la connettività è costosa e problematica in termini di copertura e prestazioni, il capitale umano decisamente indietro in termini di competenze e capacità di sfornare specialisti ICT, e la parte imprenditoriale sconta gap rilevanti. Su tutti un grafico che rende l’idea del terreno da recuperare sull’e-commerce: che diventa prioritario visti si settori di specializzazione e la fascia alta e luxury in cui si decidono i destini del made in Italy.

I dati sull’e-commerce delle piccole e medie imprese italiane. Preoccupante la posizione in coda.
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