Il destino dell’integrazione tra Unione Europea e Stati Uniti è sempre più attuale. Mentre la crisi economica e la nuova ondata di euro-scetticismo dilaniano un’Europa scossa da rigurgiti populisti e risentimento popolare, uno degli orizzonti di ripresa potrebbe proprio essere la sponda USA.
Stati Uniti ed Unione Europea producono congiuntamente oltre metà del PIL mondiale, e generano oltre un terzo dei flussi commerciali, anche grazie agli accordi attualmente in vigore e alle barriere tariffarie generalmente basse (al di sotto del 3%, in media, con picchi nel settore agricolo).

Herman Van Rompuy, Barack Obama and José Manuel Barroso. Photo: The Council of the European Union
Il tramonto, nell’ultimo anno, della cosiddetta beef war è stato un segnale di distensione incoraggiante. L’Unione Europea ha raddoppiato le proprie importazioni di manzo USA e nel contempo le autorità doganali statunitensi hanno allentato i dazi punitivi su alcuni prodotti tipici come il Roquefort e dovrebbero, entro i prossimi mesi, rimuovere il ban sulle importazioni di manzo europeo stabilito nel ’97 per arginare la diffusione della cosiddetta “mucca pazza”.
Secondo Charlemagne, il blog dell’Economist, i nodi difficili da risolvere potrebbero essere le classiche diatribe e perplessità sulla sponda europea nell’ambito del protezionismo culturale francese, oppure nell’universo di denominazioni geografiche protette e disposizioni in ambito agroalimentare nel mercato europeo. A fronte di questioni difficili da risolvere, il vantaggio sarebbe interessante per altri settori d’eccellenza (come quello farmaceutico, ad esempio), oltre all’enorme valore geopolitico che l’avvio di ambiziosi trade talks può generare. Le economie sulle due sponde dell’Atlantico sarebbero rigenerate ma, dal punto di vista europeo, il guadagno politico sarebbe di valore incalcolabile.
Si coglierebbe l’obiettivo di evitare un pivoting neanche troppo segreto dell’amministrazione USA nei confronti della Cina (che lascerebbe l’UE fuori dai giochi, almeno in teoria), lanciando al tempo stesso un segnale importante al Regno Unito, paese capofila dell’euroscetticismo, che entro i prossimi quattro anni dovrà tenere un referendum sulla permanenza nell’Unione.
In realtà il benefit economico non deve essere sottovalutato. E’ interessante la visione di Francesco Daveri in proposito. Daveri, economista dell’Università di Parma e MBA Bocconi e membro del comitato di redazione de lavoce.info, affronta la questione nel libro-intervista Crescere si può edito da il Mulino. L’economista sottolinea l’importanza di orientare la politica industriale ed economica verso una crescita soft che possa svelare orizzonti di ripresa per paesi in stallo come l’Italia (definito VERDE: VEcchio, Ricco, DEnsamente popolato). La crescita soft presuppone la creazione di un ambiente in grado di favorire gli investimenti in Ricesca & Sviluppo abbandonando la tradizione low-cost dell’industria nostrana verso settori high-tech di eccellenza. Un insieme di politiche lungimiranti che non si riducono in una generica riduzione della tassazione o incentivazione del credito e degli investimenti ma, sul modello finlandese, agiscono sulle “tasse invisibili” per le imprese incarnate dal costo eccessivo dei servizi e dall’esistenza di vincoli burocratici e normativi che deprimono l’iniziativa economica.

Francesco Daveri – Crescere si può – Ed. Il Mulino
Daveri evidenzia inoltre come non sia così scontata la necessità di dover delocalizzare e vendere nel mercato cinese attratti da tassi di crescita a due cifre, ma sia importante considerare come tassi di crescita più modesti in USA si traducano in realtà in incrementi assoluti del PIL assai rilevanti (trattandosi di un’economia vasta, consolidata e matura):
Basta tenere a mente un calcolo molto semplice. La Cina cresce ogni anno del 9 per cento; ed il suo PIL ammonta a circa 6 mila miliardi di dollari. Ciò vuol dire che ogni anno la Cina produce nuovi redditi per circa 540 miliardi di dollari, pronti per essere aggiudicati dai produttori europei, cinesi ed americani. Negli ultimi anni USA e UE crescono molto meno, tuttavia il loro PIL è di gran lunga superiore. Così, se prendiamo il 2 per cento della crescita USA, e lo moltiplichiamo per il suo PIL, che è di circa 16.000 miliardi di dollari, viene fuori un reddito aggiuntivo di 250 miliardi. Significa che la crescita combinata aggiuntiva di USA ed Europa a 27 è di circa 540 miliardi di dollari, più o meno la stessa cifra del mercato cinese.
Vanno inoltre considerate differenze intangibili: ad esempio la relativa semplicità per un’impresa europea nel conquistare e mantenere posizioni competitive nel mercato USA, che si può ritenere “confinante” con l’Europa dal punto di vista culturale, normativo ed economico, rispetto alle insidie del mercato cinese.
La tutela del marchio e della proprietà intellettuale vede inoltre una tutela quasi automatica grazie alla presenza di sistemi normativi evoluti e consolidati.
Ulteriori passi avanti nella partnership euro-atlantica sono quindi auspicabili, intervenendo con ambizione sulle numerose barriere non tariffarie che ostacolano il commercio tra i due blocchi. Si deve inoltre essere consapevoli che un investimento nei rapporti con gli USA non pregiudica assolutamente i rapporti bilaterali USA-Cina ed UE-Cina, perseguibili tranquillamente secondo le strategie più convenienti ai singoli attori.
In conclusione le sirene a stelle e strisce vanno ascoltate: potrebbe essere l’occasione di rilancio che serve all’Europa in crisi. Senza per questo tralasciare i mercati del futuro, come i BRICS e soprattutto i “Next Eleven”.
La leadership europea ne è all’altezza?