Brexit: se la Gran Bretagna lascia l’Europa

E se dopo gli sforzi tenaci (e i costi sociali sostenuti) per scongiurare la Grexit, fosse Brexit la nuova parola ad allarmare l’Europa? Proprio il timore di una clamorosa uscita della Gran Bretagna dalla UE, infatti, serpeggia tra le nebbie che avvolgono l’Europa, tra i rischi di collasso e l’impegno profuso nei tentativi di salvataggio della Grecia.

Non è un mistero lo scarso entusiasmo dei britannici per il club europeo, raggiunto nel 1973 per beneficiare della sua forza trainante sistemica, con un approccio più orientato alla valutazione dei costi e benefici che ad un reale euro-entusiasmo. Una percezione dell’equilibrio tra vantaggi e perdita di sovranità che sembra essere profondamente mutata.

L’Economist ha dedicato, la scorsa settimana, una copertina eloquente ed un briefing speciale sull’eventualità di un’uscita di scena dei britannici. Un’analisi lucida degli scenari che andranno a delinearsi nei prossimi mesi, in considerazione delle trattative in corso a livello europeo per definire e rinnovare gli equilibri più cruciali, sotto la pressione crescente di forze euro-scettiche come l’UKIP (UK independence party), che registra un consenso crescente.

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Le pressioni per un referendum sull’eventuale Brexit si moltiplicano anche all’interno di membri del governo e parlamentari, mentre il leader dell’opposizione, il laburista Ed Miliband accusa i Tory di essere alla deriva sull’agenda europea. Un attacco che giunge proprio a seguito del resoconto di Cameron alla House of Commons riguardo le concessioni ottenute al termine del settimo summit del Consiglio Europeo a Bruxelles, soprattutto riguardo alla salvaguardia delle prerogative finanziarie britanniche e alla garanzia che le misure relative al sistema bancario non saranno discriminanti nei confronti di valute esterne al sistema Euro.

In realtà tutte le forze politiche dovranno, molto probabilmente, fronteggiare gli umori negativi della piazza affrontando la questione referendum. L’European Act approvato nel 2011 impone infatti la consultazione referendaria preliminare alla ratifica di qualsiasi trattato europeo che trasferisca poteri da Westminster a Bruxelles. Una modifica dei trattati che appare all’orizzonte nel 2015 o 2016 e che sarà in cima all’agenda di Cameron (qualora rieletto). Sempre senza contare l’eventuale pressione dell’opinione pubblica, che potrebbe stravolgere le considerazioni strategiche e gli equilibri diplomatico/negoziali del governo britannico, con una richiesta immediata di referendum. In un contesto che, come appare nel grafico, è tutt’altro che definito.

EU membership poll - Credit Observer

EU membership poll – Credit Observer

I vantaggi dell’uscita dall’Europa sono principalmente a breve termine:

  • economie derivanti dal venir meno del trasferimento fondi alle istituzioni di Bruxelles (stimate in circa 13 miliardi di dollari USA);
  • possibili benefici in termini di prezzo nel mercato agricolo (per l’assenza delle vincolanti restrizioni al commercio agricolo dell’UE) e nel mercato del lavoro (per l’assenza di vincoli sull’orario di lavoro ed il personale a tempo determinato presenti nelle direttive europee);
  • il boost finanziario per la piazza londinese (l’Economist scrive di una “Singapore con gli steroidi”) quale hub finanziario libero e svincolato per le economie emergenti più rampanti.

Ma il gain immediato lascerebbe spazio a quelli che, a mio avviso, sono i costi più o meno quantificabili di una scelta così drastica:

  • Impatto per le imprese export-oriented del tessile ed agroalimentare, che vedrebbero le proprie vendite infrangersi su un muro tariffario non indifferente (55% sui prodotti caseari oppure sino al 200% su altri prodotti alimentari);
  • Delocalizzazione obbligata per tutta l’industria automotive britannica, costretta a fronteggiare il dazio del 4% sulla componentistica in un mercato in piena crisi, estrema competitività e margini quasi inesistenti;
  • Difficoltà nella gestione di supply chain complesse nelle transazioni commerciali con l’Europa, non solo per le PMI ma anche per colossi che prediligono strutture più lineari (Airbus ad esempio);
  • Costo negoziale elevato: il governo britannico dovrebbe negoziare accordi bilaterali con la quasi totalità dei paesi europei per gettare le basi di una politica commerciale drasticamente rinnovata;
  • Costo politico non indifferente: la scelta non prevede ripensamenti, e sarebbe il primo abbandono nella storia dell’Unione Europea. Una posizione di outsider a seguito di una clamorosa rottura avrebbe costi politici scarsamente quantificabili, anche negli equilibri diplomatici con gli USA (interessati ad avere un alleato fidato nel club europeo).

I benefici finanziari non sono poi così garantiti, l’Economist cita TheCityUK e l’interessante esito di un’indagine su 147 decisioni di localizzazione finanziaria tra il 2006 ed il 2012:

It found that more than two-fifths of finance firms gave access to European markets as a core reason for choosing London. Although the single market in financial services is still a work in progress, “passporting rights” entitle investment firms, banks and insurers based in Britain to establish branches or provide services throughout the EEA.

Un approccio costruttivo al futuro dell’UE non può limitarsi però ad una mera analisi costi-benefici. Il dibattito crescente attorno all’eventualità della Brexit ricorda ai leader europei che questioni cruciali come legittimazione e sovranità sono importanti come l’equilibrio finanziario o la politica fiscale e monetaria. La crisi di legittimazione che attraversa le istituzioni europee, di cui la Brexit è in qualche modo un segnale chiaro, è l’occasione irrinunciabile per un profondo rinnovamento.

Bisogna rilanciare, insieme, altrimenti non ci sarà più un posto da top player al tavolo da gioco globale. Per nessun paese europeo.

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