Foxconn: acque agitate sulle sponde cinesi

E’ proprio di questi giorni la notizia che il colosso cinese Foxconn, che produce iPhone, iPod, ed altri prodotti tecnologici di ultima generazione, ha chiuso uno dei suoi impianti produttivi più importanti nella città di Taiyuan nella Cina settentrionale.

Si sono verificati scontri che hanno coinvolto oltre 2.000 lavoratori ed è stato necessario l’impiego, secondo fonti governative cinesi, di oltre 5.000 agenti di polizia che hanno riportato la situazione alla normalità dopo diverse ore.

La notizia giunge proprio nei giorni in cui viene lanciato iPhone 5, presentato solo dieci giorni fa ai consumatori di tutto il mondo, e mentre infuria la battaglia dei tablet tra Apple, Amazon, Google e Microsoft [v. articolo del Washington Post] a colpi di innovazioni tecnologiche e strategie di marketing aggressive su prezzi e contenuti.

La Foxconn in Cina ha nove stabilimenti su tredici in Cina, ed è celebre per il mastodontico Longhua Science & Technology Park, una vera e propria città soprannominata “iPod City” dove si stima vivano e lavorino oltre 450.000 operai con turni di 12 ore al giorno, sei giorni su sette. La Foxconn è stata al centro di numerose polemiche internazionali a seguito dei casi di suicidio verificatisi tra i suoi operai nel 2010, con report assai preoccupanti sulle condizioni di lavoro da parte di osservatori e ricercatori di università cinesi pubblicati sia sul South China Morning Post, che su Shangaiist, o sul Daily Mail in Occidente.La proprietà ha addirittura installato delle reti di protezione ed individuato altri deterrenti per evitare i casi di suicidio.

Apple ha svolto un audit sulle oltre 220 fabbriche in tutto il mondo coinvolte nella filiera produttiva e nella supply chain dell’azienda, riscontrando violazioni delle policy sull’orario e le condizioni lavorative in oltre il 62% dei casi. Pur cercando di venire incontro alle richieste di maggiore trasparenza sull’argomento, pubblicando anche liste di sub-fornitori ed appaltatori, l’azienda non ha soddisfatto i suoi detrattori, che continuano a chiedere maggiore accountability sull’argomento, ed una sorta di operazione trasparenza sugli stabilimenti produttivi.

Aldilà degli scenari inquietanti, che evocano classici della letteratura come The Jungle di Upton Sinclair che nel 1906 scosse il mondo con la sua denuncia delle condizioni di lavoro nell’industria conserviera USA, determinando radicali interventi legislativi del Congresso, la questione pone ulteriori interrogativi sull’andamento della delocalizzazione produttiva in Cina.

La tendenza evidenziata da autorevoli osservatori (come il prof. Franco Mazzei, autorevole orientalista italiano), e a mio avviso preponderante considerati i crescenti costi sociali ed economici della produzione in Cina, è sicuramente negli esiti della China Western Development Strategy. Una strategia integrata di sviluppo dei territori occidentali cinesi che comprende, tra le altre cose, pacchetti di incentivi alle imprese per incoraggiare il Go West!

Chissà che le nuove tendenze della produzione delocalizzata (il re-shoring ad esempio), le sommosse locali e le risposte che offrirà il governo centrale, nonché il dibattito interno fra sostenitori del modello Guangdong (relativamente più liberale e democratico) e quelli del modello Chongqing (accentratore, autoritario ed attento alle istanze social).

Le acque sono agitate: la tempesta disegnerà un panorama inedito e differente.

3 risposte a “Foxconn: acque agitate sulle sponde cinesi

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